Come parlare ai bambini di una malattia neurologica/neuromuscolare
Potrebbe essere difficile spiegare ad un bambino che a voi o a un membro della vostra famiglia è stata diagnosticata una malattia. Questi accorgimenti possono facilitare tra di voi un flusso di comunicazione.
L’elefante nella stanza: la malattia neuromuscolare
“Incoraggiamo i genitori ad informare il più presto possibile i figli sulla propria malattia” dichiara Meredith Cooper, una specialista pediatrica e co-fondatrice di Wonders and Worries, una organizzazione no-profit con sede ad Austin, Texas, che fornisce servizi gratuiti di supporto destinati a bambini ed adolescenti che hanno un genitore con una malattia grave. “È normale avere il desiderio di proteggere i giovani, ma sono molto perspicaci. Utilizzate questa opportunità per stabilire un flusso di fiducia tra voi ed i vostri figli in modo che possano contare su di voi per chiarire le loro preoccupazioni”.
“Raccontate ciò che succede”, prosegue la Cooper, che dispone di una formazione che aiuta i ragazzi a comprendere ciò che significa la malattia. “Chiedete ciò che vostro figlio ha visto o sentito. Usate parole semplici, come “Abbiamo scoperto che ho una malattia. Si chiama X…”, datele un nome. Sollecitate qualsiasi domanda. Se non siete in grado di rispondere, dite al bambino che vi informerete. La Cooper raccomanda inoltre che i genitori cerchino il supporto di professionisti. “È uno sforzo enorme per i genitori” dichiara. “Hanno bisogno che qualcuno li aiuti nel rendere la malattia comprensibile per i bambini”.
Molti bambini riescono ad assimilare le cose poco per volta, dunque siate pronti a dare loro informazioni in piccole dosi. A seconda della loro età, possono ascoltare qualcosa e scappare poi a giocare. ‘’Si può pensare che non abbiano udito ciò che stavate dicendo, ma non è vero’’ dichiara la Cooper, la quale raccomanda di contrastare le errate percezioni. ‘’I ragazzi potrebbero incolparsi di aver causato la malattia o pensare di poterla sconfiggere’’.
Il supporto di professionisti o di un “estraneo/a”
Disporre di un amico di famiglia che possa parlare ai ragazzi può essere di aiuto. ‘’I bambini possono essere protettivi nei confronti dei genitori e possono non rivelare tutto ciò che pensano nei loro confronti’’ dichiara la Cooper. Anche gli insegnanti devono esserne informati in modo da fare caso ai problemi comportamentali o scolastici che possono sorgere.
Karen Jaffe ha chiesto al suo neurologo di parlare alle tre figlie adolescenti a seguito della sua diagnosi di Parkinson. ‘’Si è intrattenuto con loro per 45 minuti rispondendo a qualsiasi domanda fosse posta’’ ricorda. ‘’Ha menzionato il fatto che talvolta i malati di Parkinson sbavano, cosa che le ragazze pensavano fosse divertente’’. Le sue figlie, ora adulte, sono tutte divenute sostenitrici della malattia e si sono adoperate nel raccogliere fondi.
Jodi O’Donnell-Ames ha coinvolto un consulente che facesse terapia con la figlia Alina; aveva due anni e mezzo quando al padre, Kevin, fu diagnosticata la SLA, sclerosi laterale amiotrofica. ‘’Alina era curiosa, ma anche spaventata’’ dichiara la O’Donnell-Ames. ‘’Ha avuto difficoltà ad adattarsi alla sedia a rotelle, alla vettura spaziosa, alle attrezzature di aspirazione, a tutte le persone coinvolte’’.
Benché essa stessa fosse un’insegnate, ammette la O’Donnell-Ames ‘’Non sapevo come gestire il tutto’’. Non disse mai a sua figlia che il padre stesse per morire. ‘’Non riuscivo a guardare in faccia la realtà. Desideravo conservare la speranza. Dicevo solo ‘’Papà è malato ed i suoi muscoli non funzionano’’. Dopo la morte del marito, la O’Donnell-Ames divenne la co-fondatrice della società Hope Loves, una organizzazione no-profit che fornisce aiuti come soggiorni in campeggio ai bambini ed ai giovani adulti i cui genitori hanno la SLA.
La Jaffe dichiara di aver atteso troppo a lungo – sei mesi – per informare le sue figlie, di 13, 15 e 17 anni nel periodo della diagnosi del Parkinson. Non voleva che le loro vite cambiassero. (la maggiore si stava preparando ad andare al college). Ma la sorellina minore trovò il suo diario e scese al piano inferiore in lacrime. ‘’Le avevo detto di non dire nulla – di mantenere il segreto con le sue sorelle per un po’’’ dichiara la Jaffe. ‘’Fu la cosa più stupida che potevamo fare’’. Circa un mese dopo parlò con le tre ragazze e vissero incomprensioni e sentimenti dolorosi/situazioni dolorose.
La Cooper racconta alle famiglie di una abitudine utile chiamata ‘’il barattolo dei problemi’’. Ad intervalli regolari, ognuno scrive le sue preoccupazioni su un pezzo di carta (i bambini piccoli si affideranno ad un adulto che scriva per loro) e in seguito la famiglia li affronterà insieme uno per uno. ‘’Stabilire una sana comunicazione nell’ambito familiare può creare situazioni che saranno in grado di farvi attraversare la fase di stress che inevitabilmente capiterà’’ dichiara la Cooper.
Il parere della nostra Psicologa
Credo molto nell’importanza di comunicare con franchezza ai bambini e ai ragazzi il proprio stato di salute, dei propri genitori e dei fratelli e sorelle. Spesso tengo dei seminari sulla comunicazione della diagnosi, in particolare sui segnali da individuare nelle diverse fasce d’età che indicano un malessere.
È fondamentale spiegare al più presto in modo semplice e chiaro, con parole adatte all’età e ai tempi, rispettando anche le eventuali difese che i bambini e i ragazzi potrebbero mettere in atto, come ignorare, fare finta di non aver sentito oppure al contrario diventare iper accudenti o preoccupati. Se non si forniscono le informazioni necessarie, i bambini riempiono i vuoti, trovando una spiegazione a quello che non comprendono o che intuiscono, con false informazioni e convinzioni, a volte anche incolpando sé stessi.Io consiglio di cogliere momenti informali, eventuali domande o sguardi interrogativi, osservazioni che sembrano avere a che fare con altre persone o situazioni, cercando di evitare situazioni troppo impostate ma anche di riservare il giusto spazio e tempo per una comunicazione più efficace, di dare spazio a tutti i sentimenti anche i più difficili e favorire il parlare delle emozioni negative fornendo un modello, semplicemente parlando anche delle proprie. Il “barattolo dei problemi” proposto può essere un modo, ma penso che se l’abitudine in famiglia è di poter parlare di come ci si sente, poi si potrà parlare anche di quello che questa difficile comunicazione/situazione provoca. Si può mostrare di essere umani e fragili, questo normalizza le emozioni di tutti, che non debbono essere più un tabù.
È fondamentale il supporto dei professionisti, soprattutto se le difese di cui parlavamo diventano rigide e strutturate o si notano reazioni che possano allarmare. In sostanza, è utile monitorare i bambini attraverso l’osservazione di eventuali sintomi, differenti per età, come condotte regressive (ritorno a comportamenti di fasi evolutive precedenti, ad es. perdita di autonomie, enuresi notturne…), pianti apparentemente immotivati, pavor notturni, disturbi del sonno e dell’alimentazione, perdita improvvisa di interesse per cose che davano piacere in precedenza; isolamento e oppositività per i più grandi, sono alcuni indicatori che possono suggerire di chiedere un aiuto psicologico.Laura Gentile, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta
Fonte: Brain&Life, si ringrazia Simona Geninazza per la traduzione.