I problemi psico-sociali del paziente con malattia cronica e della sua famiglia

In questo articolo, la Prof.ssa Fausta Massolo dell’Università di Modena e Reggio Emilia affronta i problemi psico-sociali dei pazienti con malattie croniche come la Charcot-Marie-Tooth (CMT).

Già dagli anni ’30 Anna Freud metteva in evidenza che una “malattia fisica” poteva avere gravi conseguenze sullo sviluppo psicologico del bambino, soprattutto se di lunga durata. L’ospedalizzazione e le cure prolungate potevano “interrompere”, in modo anche importante, il delicatissimo processo evolutivo del piccolo ammalato, con conseguenze diverse correlate all’età di insorgenza della patologia, alla sua gravità, al suo protrarsi. Dai primi studi di Anna Freud ad ora lo scenario è gradualmente cambiato da un lato i progressi terapeutici hanno trasformato molte patologie incurabili in malattie con sopravvivenza prolungata, anche indefinitamente (incrementando quindi i problemi sociali), dall’altro il medico si è len­tamente trasformato da semplice “fornitore di farmaci” in terapeuta completo, capace, cioè, di supportare anche i problemi psicosociali dei propri pazienti.
Anche le strutture sanitarie si sono attrezzate per i pazienti con patologie croniche, s· da consentire loro la migliore qualità di vita (Centri Specialistici e Day Hospital con afferenza di competenze particolari); sono nate Associazioni di malati spesso integrate da adeguati Comitati Scientifici, che attualmente tendono ad aggregazioni sempre più interessanti (Consulte di Associazioni); la vita politica, anche se con fatica, sta realizzando che il problema “malato cronico” interessa milioni di Italiani e che sarà necessaria una parti­colare sensibilità nei suoi confronti. Ma, in questa “chiacchierata”, intendo soffermarmi soprattutto sul paziente (che la figura centrale di tutto il sistema), sui suoi problemi e su quello che medici, paramedici, strutture sanitarie, associazioni possono fare per lui. La malattia cronica, difatti, richiede cure e compe­tenze particolari, rapporti stretti e continui con le Strutture Sanitarie ed ha, comunque, anche nella mi­gliore delle ipotesi, grande rilievo sulla vita sociale del paziente e della sua famiglia, sui suoi progetti, sulle sue aspirazioni.
Il medico che si occupa di queste persone, oltre ad avere competenza specifica della patologia vera e pro­pria, deve avere consuetudine con i problemi psicologici e sociali del paziente e della sua famiglia ed intrattenere con lui un “rapporto particolare”.
Come già accennato, la situazione, sempre molto importante, diversa a seconda dell’età di insorgenza della malattia, della sua gravità (e conseguentemente dell’impegno terapeutico che richiede), della sua prognosi e della sua durata. Il bambino fino ai 6-7 anni ha un comportamento del tutto particolare vede la sua malattia cronica come una colpa, le terapie come maltrattamenti e avverte come dolore tutte le tensioni, i bisogni e i disagi caratteristici della sua situazione. In questa fase della vita il comportamento della madre è importantissimo una madre serena, consapevole, tranquilla avrà un bambino sereno e tranquillo. Una madre ansiosa avrà un bambino agitato, preoccupato, spaventato. Qui il medico (ma anche il personale paramedico) gioca un ruolo importante dovrà “parlare” molto con il bambino e con la sua mamma, spiegando bene tutto quello che sta succedendo e sostenendo al massimo la figura materna.
Dopo i 7 anni il bambino affronta la sua malattia con maggiore coscienza capisce bene quello che gli viene detto, localizza i disturbi, quando soffre fisicamente si sente ancora “punito”, maltrattato, perseguitato.
Il supporto sociale e la famiglia devono aiutarlo a mantenersi obiettivo, a non strutturare delle interpretazioni devianti, ad avere un atteggiamento positivo nei confronti della vita in genere e della sua terapia in particolare. Si capisce bene come sia sempre di più indispensabile un colloquio chiaro, onesto, sereno, continuo da parte dell’équipe curante.
Nell’età adolescenziale la situazione diventa sempre più difficile (di per se questo il periodo della vita più complesso dal punto di vista psicologico e sociale). Il ragazzo può assumere atteggiamenti di difesa, con negazione della malattia che viene vista come una minaccia, un impedimento alla propria autonomia, una aggressione alla “immagine di se. E’ vero che la negazione della malattia può rappresentare una protezione, ma l’adolescente in questo caso non accettando la propria condizione non accetterà neppure le terapie propostegli.
E’ importante quindi che prenda piena coscienza del proprio stato in questo momento deve avere il sostegno della famiglia, del personale e delle strutture, perché, senza un adeguato supporto e senza risorse alternative, può “regredire” sino a comportamenti infantili. Solitamente nell’adolescente questi disturbi regressivi durano poco se si mantengono vuole dire che l’adulto, magari inconsciamente, li incoraggia. L’atteggiamento tenuto dagli adulti di importanza fondamentale l’adulto, non appena la malattia lo consente, deve favorire l’indipendenza, l’autosufficienza, l’autogestione. Il giovane deve continuare, ogni volta sia possibile, la sua vita sociale (scuola, sport, associazioni ecc…). L’isolamento e l’allontanamento dalla realtà portano, nell’adolescente, all’insorgenza di sintomi nevrotici e di depressioni. La totale negazione della malattia porterà ad una “frattura” fra il paziente ed il suo male scissione pericolosa dal punto di vista psicologico. Occorre che il ragazzo capisca e accetti la sua malattia, con il fondamentale aiuto della famiglia e degli amici e che compensi con altre iniziative possibili quanto non riesce più a fare.
L’adolescenza l’età nella quale, di norma, avvengono profonde modificazioni anche somatiche queste normalmente “disturbano” un ragazzo sano, che fatica ad accettare la propria nuova immagine corporea. Modificazioni fisiche legate allo stato morboso, in questa età, diventano fonte di grande ansietà ancora fondamentale il supporto psicosociale e l’atteggiamento della famiglia, i bambini e gli adolescenti ammalati devono imparare ad accettarsi, ad avere autostima per quello che sono. La malattia, che non deve mai essere tenuta nascosta al paziente e al suo contesto, deve essere ben conosciuta ed accettata per quello che, nella sua realtà, senza banalizzazioni né sopravvalutazioni.

Un momento importante (forse il più importante) nel contesto di una malattia cronica la comunicazione della diagnosi.
Questa deve essere eseguita dal curante con calma, nel tempo necessario, in ambiente idoneo, con chiarezza assoluta, precisione e completezza deve essere rivolta, oltre che alla famiglia, al paziente, anche se piccolo. Un bambino di 5-6 anni può benissimo ricevere dal medico informazioni circa la sua malattia, eventualmente con sistemi e materiali idonei alla sua età. Quando parliamo di comunicazione della diagnosi però non dobbiamo vederla come un fatto che si compie, che si chiude, che non si ripete più. La comunicazione della diagnosi deve significare l’inizio di un rapporto paritetico, di una “alleanza” tra malato – famiglia – medico con lo scopo di sconfiggere la malattia. Questa “alleanza” ha una valenza positiva, può essere di grande aiuto alla famiglia, può apportare grande fiducia. Infatti, quando, nel contesto familiare, irrompe la diagnosi di una malattia cronica, potenzialmente mortale o invalidante, la famiglia dapprima subisce un grave shock psicologico, poi, proprio con il concetto di “combattere” la malattia, si riorganizza, si pone altri obiettivi, cambia taluni comportamenti e alla fine accetta la situazione.
In questo momento c’ anche una fase di crisi nella coppia genitoriale, per problemi eventualmente gi presenti ed accentuati dalla situazione. Spesso il padre si sente isolato, avendo di solito un compito limitato rispetto a quello della madre nella gestione della malattia e “fugge” psicologicamente.
Spesso fra i genitori si instaura una solidarietà molto forte, tesa solo alla cura del bambino, s· che la coppia genitoriale si trasforma in una coppia di accaniti terapeuti, “congelandosi” attorno alla malattia, rompendo i rapporti sociali, chiudendosi al mondo esterno (questo un gravissimo errore).
Se la famiglia non accetta la malattia, la nega, non stabilisce l’alleanza terapeutica con l’equipe; ha risentimento verso i medici (si verificano allora le fughe verso i centri esterni), oppure si carica di sensi di colpa soprattutto per le malattie trasmesse geneticamente. Come ben si capisce occorre sostenere la famiglia in modo che, dopo il periodo iniziale, ritrovi la sua serenità, attraverso nuovi equilibri, perché solo così potrà affrontare il suo iter terapeutico.
La famiglia deve continuare a vivere, a “crescere” dal punto di vista psico-sociale, arricchendosi anche dell’esperienza “malattia”.

E’ chiaro che il comportamento della famiglia correlato anche all’esistenza di problemi precedenti e che ogni famiglia, di fronte a problemi uguali, ha reazioni diverse per durata e intensità.
E’ chiaro che al malato arrivano una serie di segnali con un chiaro messaggio di “diversità” (la terapia, i suoi effetti ecc.); quindi paradossale che dai familiari pervengano messaggi di normalità quali tu sei uguale a tutti gli altri (e allora perché ti curiamo?), occorre invece che il malato accetti e viva normalmente proprio questo suo essere diverso.
In questo contesto anche le “bugie”, pur con il loro intento protettivo, non realizzano nulla di positivo, anzi creano un clima di reciproca sfiducia (il malato ha estremo bisogno di verità).
Una situazione di grande disagio vissuta dai fratelli del bambino o adolescente ammalato lasciati da soli, da parte, per il grande impegno che sta assolvendo la famiglia, si sentono abbandonati. Talora su di loro gravano sensi di colpa perché sono sani, oppure hanno l’intuizione di essere “fratelli di scorta”, dovesse andare male qualcosa al malato.
Il problema dei fratelli molto serio non correla tanto con la gravità della malattia, ma piuttosto con l’alterata successione familiare.
Per potere vivere in modo positivo la fase, più o meno lunga, di malattia, tra medico – famiglia – paziente devono circolare di continuo flussi di informazioni chiare ed adeguate; il medico deve essere sempre disponibile a dare il suo sostegno, ad ascoltare, ad infondere fiducia.
Le associazioni svolgono un ruolo importantissimo poiché gli incontri tra persone con lo stesso problema aiutano a viverlo concretamente, con il conforto di altre esperienze.
Anche il tipo di struttura e di assistenza fornita molto importante per contenere il disagio del malato e della famiglia degenze brevi, in regime di DH, ogni volta che sia possibile, e rispetto dei tempi programmati consentiranno la prosecuzione di una vita sociale accettabile. Questo soprattutto è importante per il malato cronico di età adulta le implicazioni sociali sono rilevanti (apporto con il coniuge, lavoro), così come i problemi economici, la progettualità ecc…
La chiarezza della diagnosi pare importante anche in questo contesto ma ricordiamo che, diagnosi molto pesanti possono portare a sindromi depressive difficili da superare senza supporto.
Anche per l’adulto occorre mettere in atto tutta una serie di “fattori protettivi” comprendenti la buona comunicazione familiare, il sereno rapporto di coppia, lo stato socio-economico soddisfacente, l’aiuto di amici e parenti, il supporto psicosociale, l’associazionismo, il buon rapporto con l’equipe terapeutica, la buona accettazione della malattia, la partecipazione attiva alla vita sociale, sportiva, ricreativa ecc…
Solo in questo modo la cronicità non avrà più significato per persistenza di malattia ma servir solo a definire un’area di grandi bisogni, non sempre espressi, che noi tutti abbiamo il dovere di ricercare ed appagare, in un divenire continuo unicamente rivolto a migliorare la qualità di vita.

A cura della Prof. ssa Fausta Massolo, Clinica Pediatrica dell’Università di Modena

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